Ad Est della Cinepresa

Sguardo disincantato al cinema asiatico

Recensione: Radiance, di Naomi Kawase ★★★½

Tra i cineasti che si concentrano nel microcosmo dell’individuo la Kawase si ritaglia uno spazio importante.

Il tema di questo delicato e sottile film è la percezione della realtà circostante quando uno dei sensi, quello della vista, sparisce.

I cinque sensi sono per la Kawase i paradigmi intorno al quale costruire i suoi film, in questo lavoro non c’è il tentativo di raccontare la vita di un non vedente bensì cerca, coraggiosamente, di raccontare una possibile sinergia tra le emozioni di un narratore che può vedere, e le conseguenti percezioni che quella voce può creare.

L’espediente usato è quella di una narratrice per film per non vedenti, in questo caso un film in cui due anziani coniugi sono alle prese con la perdita di conoscenza da parte di uno dei due, far trasmettere l’amore e la paura dell’addio del regista a persone che dipendono solo dalla lingua parlata ha il rischio di far veicolare quel passaggio solo attraverso il punto di vista della voce narrante.

È quello il monito che un fotografo, un tempo famoso, ancorato visceralmente alla piccola capacità visiva che gli è rimasta, lancia laconicamente alla donna.

Un confronto-scontro che permea le due persone, entrambe legate dall’obbligo di dover superare l’inevitabile, la donna, la bella Ayami Misaki dovrà prendere atto della situazione di sua madre, mentre l’uomo, il profondo Masatoshi Nagate non potrà continuare ad isolarsi.

La Kawase accompagna il tutto con inquadrature che si concentrano sulla persona, figura intera e primi piani, spesso alterate da dissolvenze o immissioni di forte luci esterne così da garantirgli una specie di significante metafisico.

Un film che ha nell’intento il suo vero atout vincente.

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